L’Epoca d’Oro della Sicilia
Musulmana: Un Falso Storico [parte 3o] - Η χρυσή
ιστορική
εποχή
της
Μουσουλμανικής
Σικελίας, Ένα
ιστορικό
ψέμμα [μέρος
3ο]
Comprendiamo appieno come l’astio
verso la Chiesa e lo status quo istituzionale fossero il vero motore di queste
opere storiografiche ottocentesche sulla Sicilia musulmana.
Sappiamo dunque che una certa storiografia ha parzialmente modificato la
realtà storica della Sicilia musulmana, mostrandone solo i buoni traffici
commerciali o i testi poetici prodotti. Queste tesi sono divenute verbo divino
fra la seconda metà del XIX secolo (Amari fu ministro dell’istruzione nel
governo Farini) e la prima del XX secolo.
Ad oggi, si tende a dare pochissimo spazio alla condizione del dhimmi
siciliano o al fatto che l’intera popolazione siciliana si adoperò per la
cacciata degli arabi e ne spazzò via quasi ogni traccia (cosa che, di solito,
non avviene quando un popolo è felice e soddisfatto della propria condizione).
Non è mia intenzione sovvertire per intero centocinquanta anni di
tradizione, ma penso sia importante far comprendere quale fosse davvero la condizione
dei siciliani cristiani.
Come tutte le altre popolazioni non-musulmane conquistate dagli arabi,
questi assunsero la condizione di dhimmi.
Tutti i beni amministrati dai funzionari bizantini o siciliani passarono
in mano musulmana assieme a buona parte di quelli ecclesiastici. Coloni e
schiavi che lavoravano le terre rimasero al loro posto, ma sotto nuovi padroni.
Amari ci tiene a precisare quasi subito che i dhimmi godevano di un
diritto di proprietà pieno e indiscriminato, alla pari dei musulmani, ma nelle
note accenna al fatto che altri studiosi sono più orientati a pensare che in
diversi casi ai dhimmi non rimanesse che l’usufrutto.
Ai dhimmi rimaneva anche la possibilità di effettuare lasciti
testamentari e concludere contratti con altri dhimmi o musulmani, ma dovevano
sottostare ad alcune limitazioni. Amari parla, in questo caso, di “condizioni
ragionevolmente chiamate essenziali“. I dhimmi non potevano parlare con
irriverenza del Corano, del Profeta o dell’Islam in generale, non dovevano
disturbare donne musulmane, i soldati, né fare proseliti. Erano inoltre
sottoposti a “tre maniere d’aggravi: di finanza (1), di polizia civile (2) e di
polizia ecclesiastica (3).”
(1) Finanza
Parliamo di due tasse, quella sulla persona, la Jizya, e quella sui beni
immobili, la Kharaj. La prima è la più conosciuta; si tratta infatti della
tassa con cui al dhimmi veniva garantita la “protezione” dai nemici esterni e il godimento delle proprie cose. Era, in sostanza, la somma che dovevano
pagare i sottomessi e ammontava a 48 dirham l’anno per i più abbienti, 24 per
il ceto medio e 12 per i nullatenenti.
La Kharaj invece era un’imposta sulla rendita presunta del fondo o della
proprietà immobiliare posseduta dal dhimmi. Con le dovute variazioni regionali,
la Kharaj ammontava al 20% circa della rendita presunta.
Alcune fonti arabe narrano che la tassazione dei due imperi abbattuti
dagli Arabi, quello Romano Orientale e quello Sassanide, era talmente alta da
far propendere gli abitanti per i nuovi conquistatori. In realtà la situazione
fu differente da luogo a luogo. In
The History of Iran from Ancient Times to the End of Eighteenth Century (1967),
l’orientalista russo Yakubovski scrive:
Una comparazione fra i
documenti pre-Islamici e quelli del periodo islamico rivela che gli Arabi
conquistatori aumentarono senza eccezione la tassazione sulle proprietà
terriere. In questo modo, alzarono le tasse per i campi di grano a 4 dirhams
l’acro e quelle per i campi d’orzo a 2 dirhams l’acro, mentre durante il regno
di Cosroe era di 1 dirham per ogni acro, a prescindere dal tipo di
coltivazione. Durante l’ultima parte del Califfato Umayyade, i Persiani
sottomessi pagavano agli Arabi una kharaj (la tassa sulla terra di cui abbiamo
detto) pari a 1/4-1/3 di quanto avevano prodotto.
(2)
Proibizioni civili
Le proibizioni imposte ai dhimmi erano piuttosto pesanti, ma anche in
questo caso Amari sembra giudicarle di poco conto, e si limita a elencarle meccanicamente.
Era
loro vietato:
portare armi;
andare a cavallo;
utilizzare selle per montare asini o muli;
costruire case che pareggiassero o superassero in altezza quelle dei
Musulmani;
bere vino in pubblico;
piangere i morti durante le processione che portava al cimitero;
(per le donne) entrare nei bagni pubblici quando ci fossero donne
musulmane o rimanervi all’ingresso di queste ultime.
Avevano
inoltre l’obbligo di:
portare un segno distintivo sulla porta di casa, sui vestiti (compresa
una cintura di cuoio o lana) e utilizzare copricapo di diversa foggia e colore;
cedere il passo ai Musulmani incontrati sulla medesima strada;
quando ci si trova in gruppo, alzarsi all’entrata o uscita di un
Musulmano .
Si tratta di umiliazioni piuttosto stringenti, volte a stabilire una
rigida separazione fra conquistatori e sottomessi. Amari ne ammette la
gravosità, ma nel paragrafo successivo sostiene che, di fronte queste
limitazioni “civili”, i divieti di tipo religioso erano piuttosto lievi.
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- Επιτρέπεται η αναδημοσίευση του περιεχομένου της ιστοσελίδας εφόσον αναφέρεται ευκρινώς η πηγή του και υπάρχει ενεργός σύνδεσμος(link ). Νόμος 2121/1993 και κανόνες Διεθνούς Δικαίου που ισχύουν στην Ελλάδα.
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