Κυριακή 12 Ιανουαρίου 2020

L’Epoca d’Oro della Sicilia Musulmana: Un Falso Storico [parte 3o] / Η χρυσή ιστορική εποχή της Μουσουλμανικής Σικελίας, Ένα ιστορικό ψέμμα [μέρος 3ο]



L’Epoca d’Oro della Sicilia Musulmana: Un Falso Storico [parte 3o] - Η χρυσή ιστορική εποχή της Μουσουλμανικής Σικελίας, Ένα ιστορικό ψέμμα [μέρος 3ο]

  Comprendiamo appieno come l’astio verso la Chiesa e lo status quo istituzionale fossero il vero motore di queste opere storiografiche ottocentesche sulla Sicilia musulmana.
  Sappiamo dunque che una certa storiografia ha parzialmente modificato la realtà storica della Sicilia musulmana, mostrandone solo i buoni traffici commerciali o i testi poetici prodotti. Queste tesi sono divenute verbo divino fra la seconda metà del XIX secolo (Amari fu ministro dell’istruzione nel governo Farini) e la prima del XX secolo.
  Ad oggi, si tende a dare pochissimo spazio alla condizione del dhimmi siciliano o al fatto che l’intera popolazione siciliana si adoperò per la cacciata degli arabi e ne spazzò via quasi ogni traccia (cosa che, di solito, non avviene quando un popolo è felice e soddisfatto della propria condizione).
  Non è mia intenzione sovvertire per intero centocinquanta anni di tradizione, ma penso sia importante far comprendere quale fosse davvero la condizione dei siciliani cristiani.
  Come tutte le altre popolazioni non-musulmane conquistate dagli arabi, questi assunsero la condizione di dhimmi.
  Tutti i beni amministrati dai funzionari bizantini o siciliani passarono in mano musulmana assieme a buona parte di quelli ecclesiastici. Coloni e schiavi che lavoravano le terre rimasero al loro posto, ma sotto nuovi padroni.
  Amari ci tiene a precisare quasi subito che i dhimmi godevano di un diritto di proprietà pieno e indiscriminato, alla pari dei musulmani, ma nelle note accenna al fatto che altri studiosi sono più orientati a pensare che in diversi casi ai dhimmi non rimanesse che l’usufrutto.
  Ai dhimmi rimaneva anche la possibilità di effettuare lasciti testamentari e concludere contratti con altri dhimmi o musulmani, ma dovevano sottostare ad alcune limitazioni. Amari parla, in questo caso, di “condizioni ragionevolmente chiamate essenziali“. I dhimmi non potevano parlare con irriverenza del Corano, del Profeta o dell’Islam in generale, non dovevano disturbare donne musulmane, i soldati, né fare proseliti. Erano inoltre sottoposti a “tre maniere d’aggravi: di finanza (1), di polizia civile (2) e di polizia ecclesiastica (3).”
(1) Finanza
  Parliamo di due tasse, quella sulla persona, la Jizya, e quella sui beni immobili, la Kharaj. La prima è la più conosciuta; si tratta infatti della tassa con cui al dhimmi veniva garantita la “protezione” dai nemici esterni e il godimento delle proprie cose. Era, in sostanza, la somma che dovevano pagare i sottomessi e ammontava a 48 dirham l’anno per i più abbienti, 24 per il ceto medio e 12 per i nullatenenti.
  La Kharaj invece era un’imposta sulla rendita presunta del fondo o della proprietà immobiliare posseduta dal dhimmi. Con le dovute variazioni regionali, la Kharaj ammontava al 20% circa della rendita presunta.
  Alcune fonti arabe narrano che la tassazione dei due imperi abbattuti dagli Arabi, quello Romano Orientale e quello Sassanide, era talmente alta da far propendere gli abitanti per i nuovi conquistatori. In realtà la situazione fu differente da luogo a luogo. In The History of Iran from Ancient Times to the End of Eighteenth Century (1967), l’orientalista russo Yakubovski scrive:
    Una comparazione fra i documenti pre-Islamici e quelli del periodo islamico rivela che gli Arabi conquistatori aumentarono senza eccezione la tassazione sulle proprietà terriere. In questo modo, alzarono le tasse per i campi di grano a 4 dirhams l’acro e quelle per i campi d’orzo a 2 dirhams l’acro, mentre durante il regno di Cosroe era di 1 dirham per ogni acro, a prescindere dal tipo di coltivazione. Durante l’ultima parte del Califfato Umayyade, i Persiani sottomessi pagavano agli Arabi una kharaj (la tassa sulla terra di cui abbiamo detto) pari a 1/4-1/3 di quanto avevano prodotto.
(2) Proibizioni civili
  Le proibizioni imposte ai dhimmi erano piuttosto pesanti, ma anche in questo caso Amari sembra giudicarle di poco conto, e si limita a elencarle meccanicamente.
Era loro vietato:
    portare armi;
    andare a cavallo;
    utilizzare selle per montare asini o muli;
    costruire case che pareggiassero o superassero in altezza quelle dei Musulmani;
    bere vino in pubblico;
    piangere i morti durante le processione che portava al cimitero;
    (per le donne) entrare nei bagni pubblici quando ci fossero donne musulmane o rimanervi all’ingresso di queste ultime.
Avevano inoltre l’obbligo di:
    portare un segno distintivo sulla porta di casa, sui vestiti (compresa una cintura di cuoio o lana) e utilizzare copricapo di diversa foggia e colore;
    cedere il passo ai Musulmani incontrati sulla medesima strada;
    quando ci si trova in gruppo, alzarsi all’entrata o uscita di un Musulmano .
  Si tratta di umiliazioni piuttosto stringenti, volte a stabilire una rigida separazione fra conquistatori e sottomessi. Amari ne ammette la gravosità, ma nel paragrafo successivo sostiene che, di fronte queste limitazioni “civili”, i divieti di tipo religioso erano piuttosto lievi.
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